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di Anna Gentile

“Nacque Lavinia Fontana nella città di Bologna l’anno 1552 di Prospero di Silvio Fontana pittore d’assai spedito pennello […]. Questi dunque avendo scorto nella persona di Lavinia ancora di tenera età gran genio alla pittura, volle, che ella in tutto e per tutto disapplicando dagli umili esercizi, ai quali per lo più fino dagli anni più verdi vien condannato quel sesso, si desse agli studi del disegno, nei quali fece tal profitto, che diventa eccellente pittrice, ricca d’ applausi e di nome si mantenne in patria […]”. E’ proprio con questa sua  prosa  moderna che Filippo Baldinucci ci pennella in modo incredibile la figura di Lavinia Fontana,  la sua iniziazione all’arte e il suo successo. Gli umili servizi ai quali, come donna,  sarebbe dovuta essere condannata, le vennero risparmiati dal padre che, assecondando l’inclinazione della figlia, fece in modo di ottenere da Lavinia il massimo del guadagno e di tenerla, anche da adulta e maritata, accanto a sé come fonte principale del suo sostentamento. Lavinia, infatti, attinse  nella bottega paterna le tecniche e le arti che la portarono a diventare una delle affermate pittrici italiane del tardo manierismo. Fu proprio lì, pertanto, che venne a contatto con illustri personaggi, non solo della nobiltà (in quanto committenti), ma anche del mondo artistico.  Agli insegnamenti paterni, ben presto si affiancarono” le esperienze pittoriche emiliane, venete, lombarde ( Sofonisba Anguissola) e toscane”.  Ma è sempre dal padre (che aprì a Bologna una scuola che si rivelerà, poi, importante per gli sviluppi della pittura emiliana cinquecentesca), che eredita l’arte del ritratto. Prospero Fontana, non a caso, proprio come ritrattista, infatti, lavorò alle dipendenze del pontefice Giulio III prima, diventando uno dei suoi pittori prediletti, e dei tre successivi poi. Grande influenza esercitarono, inoltre, su di lei  i coetanei (di poco più giovani) Carracci alle cui innovazioni fu molto attenta, anche se li superò, quanto a scuola di pensiero, imponendosi come artista professionista, in un ambito esclusivamente maschile, ed andando oltre la tradizione tardo manieristica. Ludovico, Agostino e Annibale,infatti, nonostante si fossero formati presso la scuola di Prospero Fontana, lo misero successivamente  in ombra.  Fu grazie al padre,però, che la giovane si confrontò con la più matura tradizione rinascimentale. Un’artista, dunque,  venuta fuori anche attraverso il confronto “ con s. Caterina de’ Vigri, con Properzia de’ Rossi, con la S. Cecilia in estasi, dipinta da Raffaello: tutti modelli “alti” di creatività femminile”. Di fondamentale importanza anche i contatti frequenti con le accademie letterarie, non ultima quella “dei Confusi, che divulgava l’opera di Torquato Tasso”. E, a tal proposito, l’interesse verso l’autore sorrentino è mostrato anche nella Giuditta e Oloferne che rivivono proprio in quanto “donne virtuose” del Tasso. Una passione, quella della pittura, che la figlia d’arte non abbandonerà neppure quando, a venticinque anni, il pittore Giovan Paolo Zappi la chiederà in sposa, se è vero che la  stessa Lavinia accetterà a patto di poter continuare a dipingere. Una situazione non proprio naturale, per quei tempi, dove la donna rivestiva un ruolo di inferiorità rispetto all’uomo, ma anche una situazione che va a rompere, in un certo senso quella che era la “routine quotidiana”: lo sposo, in questo caso Zappi, rinuncia a lavorare in proprio per diventare assistente della moglie. “Le sue prime opere”, come ci precisa la prof.ssa Maglio, “sono ritratti di personaggi di tre quarti davanti a ampie scene prospettiche, seguendo l’impostazione paterna”. La sua prima commissione pubblica è datata al 1584 ed arriva proprio grazie alla famiglia del marito: una pala d’altare per la cappella del Palazzo Comunale di Imola che rappresenta “l’Assunzione della Vergine con San Cassiano e San Pietro Crisologo”.  Suo suocero faceva parte del Consiglio Comunale e questo, ovviamente, fu decisivo per una commissione così importante data ad una pittrice donna di soli trentadue anni. “Il più importante successo che Lavinia raggiunse a Bologna”, come precisa l’esperta prof.ssa Maglio, “fu il dipinto con l’Assunzione della Vergine per una cappella del cardinale Paleotti nella cattedrale di San Petronio nel 1593, ovvero la commissione più importante di quel periodo  in città”.I suoi autoritratti seguono invece i dettami de il Cortegiano del Castiglione come già abbiamo visto in Sofonisba Anguissola: l’immagine di una donna onesta e onorata, moglie e madre, istruita alla luce del sapere umanistico, che si dedica alla pittura, alla musica. Lavinia ,che nei ritratti cercò di sondare la psicologia dei personaggi  studiandone molto bene la fisionomia,  si impone soprattutto nel panorama artistico bolognese, facendosi notare per “l’accuratezza dei particolari nelle figure femminili”,venendo scelta “ dalle gentildonne del tempo, da Laudomia Gozzadini, a Costanza Alidosi, da Isabella Ruini a Costanza Sforza Boncompagni, nuora di Gregorio XIII”. La Fontana, però, è bene precisare che non fu solo la ritrattista della nobiltà neofeudale, ma  fu anche ricercata da eruditi ed ecclesiastici, come dal frate Francesco Panigarola, il predicatore più influente del tempo. Richiesta, dunque, tanto dalle signore aristocratiche, quanto da illustri personaggi dell’epoca, tra cui l’ambasciatore persiano e il papa Paolo V, la Fontana dedicò le sue energie proprio alla ritrattistica.  Da non tralasciare, a tal proposito, non solo il suo primo Autoritratto, risalente al 1577, ma anche quello che realizzò due anni dopo , dove al suo cognome, aggiunge quello del marito.  Eseguì anche un ritratto molto particolare, quello  di Antonietta Gonzalesche,che rappresenta una manifestazione del fascino dello strano e del selvaggio subito dalla società europea fino a tutto l’800. La ragazzina era la figlia di Pedro Gonzales, un indigeno delle Canarie, che era affetto da una forma ereditaria rarissima di ipertricosi. Venne donato come animale esotico al re di Francia ed educato a corte, dove si sposò. Entrambi i figli ereditarono questa malattia così raccapricciante. Anche Agostino Carracci ne aveva fatto il tema di un dipinto. Nel primo autoritratto, caratteristico “topos della donna artista”,  la giovane Fontana  “si effigia all’interno di una stanza, mentre suona la spinetta, aiutata dallo zelo premuroso della fantesca che regge lo spartito musicale. Sul fondo, davanti alla finestra, si erge il cavalletto, emblema della pittura. Nella costruzione della sua prima immagine pubblica, documento importante per la questione della coscienza del sé di un’artista donna del secondo Cinquecento, la F. reinventa modelli della cremonese Sofonisba Anguissola, coltiva il mito delle artiste antiche”. Il secondo, invece, richiesto dal domenicano spagnolo  “Alfonso Chacón,  personaggio di rilievo nella Roma di Gregorio XIII,  e destinato ad una raccolta iconografica di celebrità, dalla quale si progettava di trarre un’edizione a stampa,  la pittrice “si rappresenta nello studio gremito di anticaglie, mentre disegna”. Tutt’altro che monotematica, nella sua vasta produzione ci si imbatte in soggetti non solo biblici, ma anche mitologici e sacri. Dal 1580 Lavinia ampliò i suoi temi  base  dedicandosi anche a soggetti religiosi .Le sue opere devote,che immortalano  immagini storiografiche o sacre,sono invariabilmente ricche di particolari immaginifici. Un fondamentale esempio del suo talento si può vedere nel corridoio della sala dei Cinquecento(stanza 33 degli Uffizi), con il “Noli me tangereo Gesù appare a Maria e Maddalena”,creato nel 1581:si tratta della  prima opera di una pittrice destinata ad essere esposta nel Museo fiorentino ed è uno dei pochi lavori su questo tema in cui la figura  femminile domina la tela.  “Ma è soprattutto nelle opere religiose”, come asserisce la prof.ssa Maglio, “che la pittrice bolognese espone il tentativo di debordare dagli stretti argini dell’alveo controriformista, innestando già nella sacra conversazione della Madonna con Bambino e i santi Giuseppe, Caterina d’Alessandria, Giovannino, preparata nel periodo esordiente 1570-75, un clima di intimi passaggi informali alimentato in virtù degli scambi affettivi mobilitati nel vissuto della rete familiare. Un’ atmosfera questa che sarà restituita poi nel “Cristo coi simboli della passione “di El Paso, datato al ’76, con l’adozione di un linguaggio intriso di partecipe flusso emotivo, riverberato dagli angeli chiamati a sorreggere il corpo ormai esanime del Gesù deposto dalla croce, ove il distacco con la didascalica “oggettività” del racconto iconografico predicata dal codice romano, e in sede felsinea dal mandato paleottiano accolto da artisti come Bartolomeo Cesi, Tommaso Laureti, Cesare Aretusi o Camillo Procaccini, traduce un recupero della contigua lezione emiliana di Correggio e Parmigianino, trasmessa negli sguardi di tenerezza e nella garbata gestualità manieristica annessa alle cadenze dei messaggeri celesti, insieme a quell’allungamento con torsione serpentina del redentore estratto da elementi toscani ascrivibili a Pontormo. L’ipoteca della cultura controriformista graverà con alterno vigore nelle realizzazioni di Lavinia, arrecando l’esplicitazione di una giacenza formativa “istintivamente” riflessa, per adattarsi talora alle prosaiche necessità di soddisfare la committenza con un linguaggio facilmente accettabile. Ottenne spesso commissioni per  dipinti di matrice mitologica o biblica, che risultano carichi di vibranti effetti drammatici e filamenti di luce inondati nel buio come sulla veste della “ Giuditta e Oloferne”, conservata nell’oratorio di San Pellegrino a Bologna, evidentemente “rapita” durante l’esecuzione del suo atto di giustizia dall’estasi mistica inscritta in quello sguardo “soavemente” rivolto al cielo. Molte commissioni  inclusero anche nudi femminili. Nonostante queste commissioni fossero inusuali, in quel tempo, per un’artista donna, la Fontana produsse non meno di dodici opere di questa tipologia”. Anche se vi è una scarsa documentazione a riguardo, si può supporre che la pittrice, mentre viveva a Roma, sia potuta essere un modello  per Artemisia Gentileschi, che aveva 10 anni  nel 1603quando l’artista bolognese si trasferì nella città eterna. E’ interessante notare che il primo lavoro di Artemisia, in cui veniva raffigurato un nudo,”Susanna e i vecchioni”,fu creato nel 16010. Il successo vero, nonostante la sua riluttanza, lo assaporò proprio a Roma, con il papa Gregorio XIII.  Fu sotto la protezione dell’alto prelato che l’artista tardo manierista si conquistò l’appellativo di “Pontificia Pittrice” eseguendo molti lavori “ per l’entourage della corte papale (nobiltà romana e rappresentanze diplomatiche)”. Una donna attiva su due fronti,quello domestico e quello artistico, non sempre facilmente conciliabili, ma a cui si dedicò ugualmente con altrettanto interesse senza venire mai meno a nessuno dei due compiti. Su richiesta di Clemente, ha eseguito il suo più famoso lavoro pubblico, una pala di 20 metri intitolato “La lapidazione di Santo Stefano Martire”,che raffigura il pathos del primo cristiano a morire per la fede. La pala d’altare ha ornato uno dei sette centri di pellegrinaggio di Roma, la chiesa di San Paolo Fuori le Mura, fino a quando l’edificio fu consumato dal fuoco nel 1823 e il quadro andò perduto. Non la fermarono né le critiche all’opera a causa delle sproporzioni tra le figure, né la grande mole di lavoro per la sede papale che doveva essere conciliata con la storia di una donna che aveva pur sempre dato alla luce undici figli, otto dei quali morti prematuramente. Nel 1611 lo scultore Felice Casoni realizzò un medaglione di bronzo con l’effigie della Fontana per onorarla del suo contributo alle arti. La medaglia immortala il volto sul recto alla maniera “classica”, mentre al verso  è affidata una prorompente effigie dell’artista coi capelli al vento, assorta al cavalletto in ipnotica trance creativa; inoltre ,a riconoscimento  del fatto che fu la prima donna cui era stata commissionata un’opera pubblica,fu eletta tra gli accademici di San Luca a Roma. Nell’ultimo decennio della sua attività romana, l’artista si cimenterà in una produzione ritrattistica tuttora scarsamente documentata, ma comunque ancorata a cadenze di retaggio rinascimentale ipotecate da orientamenti recalcitranti a recepire o aggiornarsi sui versanti estranei delle atmosfere barocche apparse nel nuovo orizzonte creativo, parimenti indirizzando la sua vita privata verso un coinvolgimento religioso di progressiva spiritualità, che argomenterà nel 1613 la decisione di entrare insieme al marito presso la locale Figliolanza dei Padri Cappuccini,dove morirà nell’agosto del 1614.

 

 

 

 

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