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Poscere fata / tempus, ait – deus, ecce deus!
[…è tempo, dice, / di chiedere i fati – il dio, ecco il dio!]
(Virgilio, Eneide, VI 45-46)
La Sibilla Cumana (gr. Σιβυλλα, lat. Sibylla) è una delle più importanti Sibille, figure profetiche della religione greca e romana, inoltre è anche una sacerdotessa di Apollol titolo di Sibilla Cumana era detenuto dalla somma sacerdotessa dell’oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), oracolo situato nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d’Averno, in una caverna conosciuta come l'”Antro della Sibilla” dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture dell’antro, rendendo i vaticini “sibillini”. La sua importanza era nel mondo italico pari a quella del celebre oracolo di Apollo di Delfi in Grecia.

Il gruppo dei Monti Sibillini, chiamati in altro modo “montagne azzurre“, possiede due nuclei distinti di leggende; uno riguarda la fabulazione incentrata sulla grotta di Sibilla, che si apre alle pendici del monte Vettore.

E’ bene specificare subito che nelle tradizioni classiche, le greche e le romane, la denominazione “sibilla” fu appellativo proprio delle indovine ritenute in comunicazione diretta con gli dèi. In origine fu probabilmente il nome proprio di una profetessa, già citata dal filosofo Eraclito di Efeso. Secondo la tradizione comunemente accettata, Sibilla sarebbe stata figlia di Zeus e di una Lamia, un essere infernale dotata di poteri divinatori.

In altre mitologie, sottoscritte principalmente dagli eruditi rinascimentali, Sibilla sarebbe stata generata dal capostipite della città di Troia, Dardano, unitosi alla ninfa Neso. Tuttavia le fonti riferirono di più sibille, ognuna dimorante in un territorio preciso. Il loro numero sarebbe stato elevato. Lo storico Marco Terenzio Varrone, che scrisse nel primo secolo a.C., ne enumerò almeno dieci che avrebbero profetato al suo tempo. Il cronista romano scrisse che fossero state esseri semidivini e capaci di vivere per moltissimo tempo. Loro caratteristiche peculiari sarebbero state l’invasamento, concepito come possesso sessuale da parte della divinità cui erano votate, e la libertà assoluta di profetare anche quando l’oracolo non fosse stato espressamente richiesto.

Dalla loro decantata attitudine per l’invasamento fisico nacque verosimilmente il pensiero, tipicamente medievale, che le sibille fossero state indissolubilmente legate al sesso e, giacché erano pagane, la sessualità sarebbe stata imperniata sulla lussuria e sulla depravazione dei costumi. Il contenuto delle profezie di alcune di esse fu messo per iscritto, tanto che in epoca imperiale romana ne circolarono varie raccolte. Secondo la leggenda, la Sibilla di Cuma avrebbe venduto al re romano Tarquinio Prisco i così detti Libri Sibillini, mentre alla cultura ellenistica sarebbe appartenuta la raccolta degli Oracoli Sibillini.

Nella tradizione letteraria cristiana delle origini, le Sibille furono assimilate ai profeti dell’Antico Testamento, ma nel Medioevo non fu così, tutt’altro.

Nel cuore di Sibilla

  In pieno Medioevo, verso la fine del secolo XIV, iniziarono a diffondersi nelle zone appenniniche racconti fantastici sull’antro incantato e misterioso di una sibilla dimorante i monti.

Le fu dato il nome di Alcina. Il tema fu ripreso da Andrea da Barberino nel poema epico Guerin Meschino nel quale la Sibilla, assunti a piene mani gli attributi mitici della dea Venere, operò nella duplice dimensione di profetessa e di seduttrice di uomini.

Dopo da Barberino fu Antoine de la Sale a cimentarsi nel narrare nuove esperienze. Egli scrisse di essere salito alla caverna di Sibilla guidato da un medico, tale Giovanni da Sora e da alcuni giovani del paese di Montemonaco nel maggio del 1420.

Un grande masso ne avrebbe ostruito l’accesso, per cui si sarebbe reso necessario procedere a carponi. Alla luce delle torce de la Sale avrebbe distinto un vano quadrato ricavato dalla roccia ma per proseguire oltre sarebbe stato di rigore infilarsi in uno stretto cunicolo, all’apparenza senza fine, che sarebbe sceso verso il basso. De la Sale non ci sarebbe entrato, ma riferì che anni prima cinque montanari avessero proceduto lì dentro per oltre tre miglia, fino a quando un vento fortissimo li avrebbe costretti a tornare in superficie.

De la Sale scrisse anche che un prete, certo Antonio Fumato, gli avesse raccontato di aver accompagnato due giovani tedeschi alla grotta e di essersi tutti e tre inabissati nelle viscere del monte oltre la  cosiddetta “foce del vento” fino a giungere a due misteriosi portoni di ferro. Ci sarebbe stato anche un ponte tra le sponde di un fiume di acqua cristallina, sulle cui arcate sarebbero state incise dai diavoli alcune oscure iscrizioni.

Continuando i racconti di Fumato, de la Sale aggiunse che oltre al ponte si fosse aperto un largo pianoro attraversato da un agevole sentiero, alla fine del quale ci sarebbero stati due simulacri di draghi dalle forme bellissime e solenni, lavorati in rocce di natura scintillante.

Una luce vivace e soffusa per quanto di origine ignota, avrebbe completamente illuminato il paesaggio. Oltre alle statue dei draghi, si sarebbe aperto uno stretto passaggio di circa cento passi.

Il corridoio sarebbe sfociato in un piazzale quadrangolare. Qui ci sarebbero stati appunto i portoni di ferro che, sbattendo in continuazione l’uno contro l’altro, avrebbero reso il passaggio molto precario.

Il prete disse che i due tedeschi sarebbero riusciti a superare lo sbarramento, ma che lui non aveva osato inoltrarvisi per paura.

Finì il suo resoconto dicendo di aver atteso molto tempo il ritorno dei giovani. Poi, credendoli morti, Fumato sarebbe risalito in superficie.

Irene Ascolese

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